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VARIETA' - CINEMA - MUSICA

ARTICOLI

A CURA DI: Andrea Pocosgnich


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Il teatro italiano


 

È cominciato un nuovo anno. Eppure non sembra. È cominciato un nuovo anno eppure sembra di essere ancora a metà, ancora nel mezzo di un tunnel nel quale la via di uscita appare lontanissima. Se usassimo un’immagine teatrale potremmo raccontare di un foyer lunghissimo, un’anticamera buia che dovrebbe portare a una sala illuminata ma l’entrata alla platea, ad ogni passo, si allontana sempre di più. In primavera “festeggeremo” l’anniversario di questo disastro. E davvero mi sembra incauto cercare parole più ottimistiche, perché di un disastro si tratta, nonostante l’arrivo del vaccino. Se si eccettuano i mesi estivi in cui alcuni teatri o festival sono riusciti, tra mille difficoltà, ad aprire le proprie programmazioni al pubblico, per il resto la stagione teatrale è implosa bloccando il settore e tutta la filiera. Mentre scrivo questo pezzo il contatore del Ministero della Salute è arrivato a più di 190 mila persone vaccinate, quasi il 50% delle dosi attualmente disponibili. Qualche settimana fa il commissario Arcuri parlava di settembre come possibile orizzonte nel quale tutti i cittadini italiani avranno ricevuto il vaccino. È insomma evidente che, se i tempi sono questi e se la curva dei contagi non scende velocemente, avremo perso non solo buona parte della scorsa stagione ma anche la maggioranza di quella in corso. I lavoratori e le lavoratrici sono allo stremo: i più fortunati continuano a lavorare nei set (cinema e tv si sono fermati per poco tempo rispetto agli altri settori dello spettacolo), quelli che gravitano stabilmente attorno ai teatri pubblici più attivi nella rimodulazione delle attività hanno potuto usufruire di una ridistribuzione delle economie, altri si barcamenano nel settore della formazione seguendo la girandola di apertura e chiusura delle scuole, le direttive nazionali e quelle regionali, l’insegnamento in presenza (tra mascherine, distanziamento, finestre aperte e regole che cambiano velocemente) e quello a distanza. Va detto che nessuno vuole arrendersi, ognuno a modo proprio cerca di stringere i denti, di tenersi il lavoro e di creare le condizioni migliori per la ripresa. Ma conosco attrici e attori che non sono impiegati da mesi e non possono fare altro che aspettare gli annunci contenuti nei vari Dpcm, nei quali vengono promessi i prossimi bonus da 1000 euro e stringere la cinghia fin quando l’Inps riuscirà a estinguere i pagamenti; di tanto in tanto su Facebook si leggono casi di lavoratori che aspettano ancora i contributi estivi, e subito nasce un dialogo con i colleghi: chi può presta solidarietà oppure racconta la propria esperienza. Ogni volta è tremendo e commovente. Anche in questo caso siamo di fronte a un funzionamento a macchia di leopardo. Poi però c’è la tensione, il guardarsi in cagnesco, come nel dibattito suscitato dalla scelta del Governo di fissare a 7 giornate lavorative l’asticella per accedere ai bonus: per alcuni quel limite rappresenta un parametro giusto che ripaga anche delle incongruità del sistema, per altri è una valutazione al ribasso che danneggia la credibilità dell’intero settore. Mai come in questi mesi il teatro italiano ha dovuto misurarsi con questioni interne che ne evidenziano la marginalità e le fragilità. Per motivi storici il teatro in Italia non è mai stato paragonabile a un comparto industriale, né privato né pubblico. Siamo stati per secoli aggrappati all’idea di un certo mecenatismo di stampo rinascimentale e poi non abbiamo fatto altro che sostituire il duca di turno con il Ministero. E così non siamo mai stati in grado di fortificare i circuiti privati, anzi abbiamo fatto in modo di rendere difficile la collaborazione tra la scena privata e quella pubblica e impossibile il travaso tra il teatro commerciale e quello d’arte; in Italia questi mondi semplicemente non si parlano. E invece un dialogo sarebbe salvifico per le economie e i livelli occupazionali e qualitativi, o almeno per la vivacità del comparto. Non siamo stati in grado però di fortificare neanche il sistema pubblico che, appunto, appare disordinato, mancante di una visione culturale omogenea e soprattutto senza una proposta di futuro. Doveva arrivare una nuova legge sullo spettacolo dal vivo e invece negli anni è rimasta ad ammuffire tra i banchi del Parlamento. Nel 2014, attraverso un decreto, vennero stravolte le regole di assegnazione dei fondi pubblici per lo spettacolo – anche allora c’era Dario Franceschini al Mibact: quel decreto con una fusione a freddo creò i Teatri Nazionali e i Tric (teatri di rilevante interesse culturale), attraverso tabelle e algoritmi veniva manifestata l’incidenza e l’importanza dei teatri storici nei territori di appartenenza. Già nel 2014, riflettendo sul nuovo regolamento del Fus mi domandavo cosa fosse un teatro nazionale, mi chiedevo se mai dal Ministero sarebbe potuta arrivare una risposta a questa domanda: qual è la differenza culturale tra un Nazionale e un Tric? Nessuna, se non la grandezza dei numeri, le proporzioni diverse nelle sale, nel numero di spettacoli da produrre, da ospitare, coprodurre, ecc. E in questo puzzle disordinato la cosa più avvilente è che tutto ciò non è mai stato tradotto per il pubblico, proprio perché non c’è mai stata la volontà di comunicarlo culturalmente: provate a prendere un abbonato del Teatro Argentina di Roma e uno del Teatro Metastasio di Prato e chiedere loro se sappiano che cosa sia un teatro nazionale e cosa un Tric. A scanso di equivoci – nel caso non si fosse capito – non penso che la pandemia stia servendo a migliorare questo quadro: la gran parte del settore vuole la testa di Franceschini, ma il ministro è un tassello importante in un governo che deve portare il paese fuori dall’emergenza e non c’è abbastanza forza e unità per spingerlo alle dimissioni. No, i post su Facebook a quanto pare non bastano e gli articoli sulle riviste specializzate nemmeno. Con i finanziamenti che Franceschini punta sulla partita del “Netflix della cultura” si potrebbe dare una spinta al sistema, cominciare a riorganizzarlo, conquistare il pubblico e lavorare sulla sua formazione, qui ad esempio Alessandro Toppi ha riflettuto su una serie di alternative. A proposito, il pubblico. Lo spettatore è il grande assente. È assente dalle platee ma anche anche dai discorsi, dai dibattiti e probabilmente non era presente anche nelle piazze che i lavoratori dello spettacolo sono riusciti a riempire nell’autunno passato. E noi, che di teatro ci occupiamo, che di teatro viviamo, sappiamo ancora che peso abbia la sua presenza? Nello smarrimento, con cui questo articolo è iniziato, inevitabilmente precipita anche il ruolo dello spettatore: per i più pessimisti rischiamo di perderlo perché gli è stata mostrata la possibilità di un teatro trasmesso nella comodità del tinello di casa, come un prodotto televisivo tra i tanti. Non è questo il problema, certo, ma nessuno al Ministero sta lavorando sulla questione relativa al pubblico: dal dicastero di Franceschini arrivano proclami sull’aumento dei fondi di emergenza, annunci su nuove regole per il Fus (appena disponibili andranno visionate con attenzione), ma nulla sembra promettere una visione organica. Lo Stato d’altronde sembra voler premiare chi continua le attività, anche in streaming, ma solo i grandi teatri possono permettersi la tecnica e i rapporti con le televisioni e le produzioni possono contare solo su pochi lavoratori, che spesso sono quelli che già collaborano continuativamente con i teatri stessi. Anche in questo caso il livello di scontro tra gli artisti è altissimo: chi si oppone a forme teatrali o para-teatrali che avvengano a distanza si pone in totale chiusura rispetto ai propri colleghi che invece cercano di rimodulare il proprio segno, di abitare spazi altri, di cercare una relazione – certo difficilissima – con il pubblico. Si legga l’ultima intervista di Romeo Castellucci che sembra falcidiare qualsiasi tentativo di discorso. Della questione relativa alle possibilità di utilizzare forme e temi teatrali che sfuggano alla compresenza scena-platea torneremo a parlare, con la consapevolezza che di sicuro non sarà “lo streaming”, come spiegammo qui durante il primo lockdown, a determinare la chiusura o apertura dei teatri. Anche perché se torniamo ai dati (15 mila contagi e 600 morti solo il 5 gennaio) e se davvero vogliamo chiedere con un’unica voce l’apertura delle sale teatrali, dobbiamo essere coscienti che lo stiamo facendo con questi numeri, altissimi e tremendi. E, anche in caso di aperture contingentate, cosa sarà degli spazi e delle compagnie indipendenti? Anche loro sono aggrappate al cordone dei provvedimenti di emergenza, dell’extrafus, costretti a contrattare per affitti, lottare per le casse integrazioni e non impazzire. Se i teatri dovessero ripartire a breve comunque lo farebbero a mezzo servizio, con le platee disabitate e aperte per pochi. Ecco allora che anche gli aiuti devono misurarsi con piani a lungo termine più che attendere ogni volta la scadenza di un Dpcm. Che poi in realtà basterebbe iniziare, come tante volte si è detto (e come ha spiegato qui per esempio Massimiliano Civica), dai teatri pubblici: in una situazione di emergenza come questa i grandi teatri finanziati dallo Stato e dagli enti locali devono ridistribuire le economie. Alcuni lo stanno facendo in maniera evidente, attraverso dei progetti, più o meno riusciti, più o meno interessanti, non è questo il problema centrale, è naturale che ci sia un certo sperimentalismo, ma l’importante è continuare a lavorare: tra i Nazionali e i Tric si veda ad esempio l’iperattività di Ert, dello Stabile del Veneto, lo Stabile di Torino, i progetti radiofonici di India e quelli di palco all’Argentina, per il Teatro di Roma; si guardi al lavoro preziosissimo sul territorio del Metastasio; il Teatro Nazionale di Genova, lo Stabile della Sardegna e tanti altri; quelle strutture che non si stanno adoperando per valorizzare gli artisti dei propri territori e non sono neanche intervenuti attraverso forme di tutela per i lavoratori va detto, sono colpevoli di un comportamento eticamente inaccettabile. Il Ministero dovrebbe avere il coraggio di legare i finanziamenti emergenziali a un piano di tutela dei lavoratori e poi attuare quei meccanismi di controllo purtroppo troppo spesso assenti. Nelle prossime settimane, se la curva continuerà a scendere si potrà cominciare a ragionare su possibili finestre; l’ultimo Dpcm scadrà a metà gennaio. Si comincia però a parlare della possibilità di istituire zone bianche in cui riaprire anche sale teatrali e cinematografiche. Ma allora, dato che qui si tratta di scegliere e tutelare oltre che le economie del sistema teatrale, anche la salute dei lavoratori e delle lavoratrici, perché il Mibact insieme alle associazioni di categoria (come l’Agis) e al Ministero della Salute non comincia a studiare la questione dal punto di vista scientifico? A Barcellona hanno realizzato uno studio pilota su un concerto per evidenziare le conseguenze epidemiologiche. Vogliamo seriamente capire quale sia l’impatto di una serata teatrale in una città piccola, media e grande con l’attuale andamento dell’epidemia? Vogliamo approntare uno studio con evidenze scientifiche per comprendere quali siano le conseguenze di un teatro aperto con 200 persone, distanziate e in mascherina, quale sia l’impatto delle possibili file sulla città, sugli spostamenti degli spettatori? È possibile tutto questo oppure l’unica cosa che si può fare è continuare a rompere i salvadanai e centellinare gli aiuti in attesa che il vaccino ci salvi? Allora mi domando: questo benedetto teatro è di interesse nazionale o no? Lo deve essere senza dubbio, se no i Governi non sarebbero tanto pazzi da dissanguare la Tesoreria dello Stato in favore di una cosa inutile… Se non lo è, mi perdoni l’affermazione, Eccellenza, dobbiamo considerare inutili gli attori, i registi, gli scrittori, l’Accademia, la Direzione Generale del Teatro e tutto l’apparato burocratico che la circonda. (Eduardo De Filippo, L’arte della commedia)

 

Andrea Pocosgnich

18/06/2024